Un paio di anni fa abbiamo intervistato Fabrizio Laganà, uno dei maggiori esperti nel settore a livello nazionale, per farci raccontare la sua storia nel reggae. Storia che oggi troviamo stampata in un libro: infatti, dopo le precedenti pubblicazioni “100 dischi ideali per capire il reggae” e “Massive Reggae Discography”, pochi mese fa è uscito “Febbre a 33 giri: Diari di una vita in Levare“, libro nel quale l’autore romano racconta 40 anni di vita all’interno della scena reggae.
Ciao Fabrizio, bentornato su eventireggae.it e complimenti per questo nuovo libro.
Ciao Danilo e ti ringrazio per i complimenti del nuovo libro scritto con Luca Brindisino e grazie ancora per questo invito.
Partiamo dal principio, parlando di come nasce questo nuovo lavoro: qual era l’idea di base? Ci sono stati dei cambiamenti nel corso della stesura? Sei rimasto soddisfatto del risultato finale?
Dunque, all’inizio del nuovo progetto di scrivere un nuovo libro, avevo in mente di dedicarlo interamente a tutti gli artisti, musicisti e produttori che non ci sono più e di intitolarlo “Reggae Shining Stars” ma a settembre del 2017 mi telefonò Luca Brindisino da Lecce, il quale mi fece una proposta:” Fabri, dato che compi 40 anni di passione, amore, condivisione, studi e ricerca sul reggae, oltre che a promuovere questa musica sin dai primi anni ’80, perchè non scrivere un libro sui tuoi 40 anni di vita reggae e non, per raccontare a tutti un pezzo della tua storia?”.
Immaginate l’iniziale stupore e relativo shock nel dover raccontare sin dall’inizio tutta la mia vita, anche nei dettagli, fino ad arrivare al 2017.
Nella premessa hai parlato della tua vita paragonandola ad un disco, un disco curvo le cui emozioni e memorie sono state riportate nero su bianco in questo libro, che parte dall’anno in cui hai scoperto la musica in levare grazie ad un lp di Marley: quali furono le emozioni che suscitò quel disco?
Bene, ricordo come se fosse stato oggi, quel pomeriggio quando arrivò a casa mia Davide, il mio amico con il disco di Bob Marley “Exodus” per farmelo ascoltare. Prima di allora il discorso sulla musica per me era dato dall’ascolto di musica generica e senza aver gusti specifici, ma la conoscenza di quegli anni imponeva di conoscere quei gruppi e quei cantanti che in quegli anni la facevano da padrona.
Quindi ascoltavo i Pink Floyd, Genesis, del funky con i Commodores, Temptations e musica italiana anche se non era la mia preferita. La svolta e soprattutto il mio destino venne segnato quando all’ascolto del disco di Bob mi fermai sulla canzone “Waiting In Vain” perchè qui avvenne la scintilla definitiva che fece scaturire un bivio per tutta la vita della mia carriera di studioso, scrittore, collezionista e promotore della musica reggae. Inizialmente fu solo la musica e il ritmo a catturare la mia attenzione, anche perchè cantava in inglese ed io nel 1977 non sapevo e ne conoscevo nulla di questa lingua, solo il francese sapevo, che studiavo sin dalle elementari. Quindi problema numero uno, imparare in fretta e subito la lingua per conoscere bene i testi delle canzoni e soprattutto per saperne di più.
A livello musicale com’era la scena musicale romana degli anni ’70?
La scena romana degli anni ’70 era dettata dalla canzone di autore, contemporanei, vari gruppi musicali che a me non interessavano, avevo scoperto una nuova realtà musicale, non tanto vicina ma nello stesso tempo mi stava coinvolgendo sempre di più con il passare degli anni, fino a giungere al 1979 anno in cui cominciarono ad arrivare in Italia i primi nomi principali della musica reggae “Made in Jamaica”: quindi mi dedicai soprattutto alla ricerca di dischi nei vari negozi a Roma, ma soprattutto iniziò la caccia all’informazione e l’acquisto delle prime riviste musicali inglesi come New Musical Express, Melody Makers e Black Echoes, importantissime per conoscerne di più e leggere le classifiche di vendita e le tante pubblicità dei negozi di dischi sparsi a Londra e dintorni.
La scena politica di quegli anni fu davvero devastante su tutti i livelli, politicamente, economicamente e socialmente. Continui attentati contro sedi politiche sia di destra che di sinistra, aggressioni e agguati notturni senza sosta, il clima romano e italiano in genere non era dei migliori ed a ricordarli spesso mi fa venire in mente nello stesso identico periodo, quando si sparavano nelle vie dei ghetti a Kingston. Quindi potete immaginare proporre serate reggae, in quel periodo era impensabile ma comunque ugualmente organizzate “di nascosto”.
Due anni più tardi aver scoperto la reggae music, arrivò la prima combo di concerti: Prince Far I & The Arabs e Burning Spear con gli Aswad. Un bel colpo, contando che di lì a poco The Voice Of Thunder sarebbe rimasto ucciso in una sparatoria. Negli anni a venire assisterai ad una serie di concerti leggendari, da quello di Bob Marley a Torino, a quello di Peter Tosh a Castel Sant’Angelo, senza dimenticare i grandi Dennis Brown e Sugar Minott: quale di questi concerti se potessi, vorresti rivivere ancora una volta?
Dunque ora il discorso si complica un po’ perchè dovrei fare delle schede approfondite sui miei primi concerti che assistetti, ma ugualmente vorrei descriverveli in breve così da capire e ricordare insieme a tutti voi quei momenti.
Il concerto di Prince Far I si può dire fu per solo intimi dato che fummo in sole 40 persone ad assisterlo, ma l’emozione fu grande ugualmente, musicalmente parlando; quello di Burning Spear con gli Aswad come backing band fu straordinario, Bob Marley allo stadio Comunale di Torino indimentacabile e fisso nei miei ricordi, mentre invece quello di Peter Tosh fu un’esperienza assurda.
Mi chiederete perchè assurda? lo ripeterò fino alla nausea, non si può organizzare un evento di tali proporzioni, dentro il fossato di Castel S.Angelo, purtroppo organizzato sempre dalla stessa multinazionale del tabacco la “Muratti Music” che organizzò le due date di Bob Marley. Assurdo chi diede i permessi d’agibilità per un luogo ad alto rischio per l’incolumità fisica delle persone che vi assistettero. L’acustica fu disastrosa, montando il palco sotto e le casse piazzate al lato palco che sparavano i decibel contro le mura per poi rimbalzare a ripetizione nelle orecchie. Poi ancora Dennis Brown per due volte e Sugar Minott. Quale vorrei rivedere ancora una volta? Difficile da rispondere, ma non impossibile e potrei tranquillamente dire che rivivrei senza alcun dubbio il concerto di Dennis Brown, non quello effettuato al Piper nel giorno del mio 25° compleanno, ma quello effettuato l’anno precedente nel 1989 durante la programmazione di “Reggae Connection” ’89.
Accanto alle lucide memorie delle stagioni di concerti che ti accompagneranno per quarant’anni, descrivi le condizioni socio-politiche e culturali che ti circondavano, dagli anni di Piombo fino alla crisi del 2008: qual è stato il periodo che ricordi come più difficile?
Parlare delle condizioni socio-politiche di Roma e dintorni di quegli anni significa parlare delle menzogne che purtroppo siamo stati vittime predestinate dal dopoguerra ad oggi, non solo in quello specifico periodo storico ma giungendo fino ai nostri giorni.
Menzogne perchè nel corso dei vari decenni e via via di seguito tutti gli altri, dopo l’acclamata vittoria del DC, l’Italia sprofondò nella più cupa e retrograda nazione europea, dove il “diverso” era considerato davvero come un nemico da combattere, da sfruttare o da eliminare. Quindi chi non la pensava come “loro” era tagliato fuori da tutto e da tutti, e il povero Partito Comunista, secondo partito nazionale da sempre per buona parte degli anni ’70 e ’80, rimaneva messo in disparte e accantonato da altri movimenti politici da sempre contrari al partito rosso in Italia. Il discorso, collegato alla nostra musica del cuore, equivaleva a proporre una musica fatta e suonata da cantanti e musicisti di colore, giamaicani ma anche africani, quindi visti come “diversi” e non dovevano affatto proporre la loro musica che parlasse di “droga” come l’erba, mentre nel paese sin dalla fine degli anni ’60 cominciava ad entrare prepotentemente la droga con la D maiuscola, con l’arrivo dell’eroina e della cocaina, oltre che di quelle sintetiche che portarono la società verso la porta del proprio disfacimento mentale, comportamentale e sociale.
Senza dimenticare le avventure calcistiche che ti hanno portato non poche volte a diversi imprevisti. Che cosa ti ha portato a perdere l’interesse per il mondo calcistico?
Fin da piccoli, penso tutti i bambini, ragazzini, adolescenti e adulti hanno sempre pensato al gioco del pallone come il più importante sport al mondo, ma nel corso dei decenni siamo stati spettatori di un calcio davvero strano, a partire dal primo scandalo scommesse avvenuto nel 1980. Lo spettacolo nel vedere i giocatori della propria squadra dare il massimo e offrire un maggior spettacolo possibile a tutti fu bellissimo fino a quando si scoprì che le partite venivano truccate e segretamente si accordavano sul risultato finale. Da qui iniziò il mio disinteresse per questo sporto, falsato in toto, poi condito dall’arrivo della politica estrema nelle curve italiane, per non parlare dell’odio tra le tifoserie delle varie squadre e città italiane. Dopo aver assistito e anche partecipato a dei durissimi e violentissimi scontri tra tifosi in molteplici episodi, sempre ad insaputa di noi ignari tifosi pacifici, rispettosi e soprattutto sportivi, decisi di abbandonare frettolosamente l’ambiente inquinato degli stadi a partire dal dicembre 1987 , di cui ne parlo bene all’interno del capitolo del medesimo anno.
Torniamo alla musica. Nonostante gli alti e bassi nella carriera scolastica come ogni adolescente, hai sempre dimostrato interesse per la lingua inglese, che nel libro scrivi essere stata trasmessa grazie all’ascolto della musica reggae: a parte la lingua, che cosa ti ha trasmesso questa musica?
Purtroppo la lingua inglese è di fondamentale importanza non solo per conoscere la musica reggae o altri generi, ma per connettersi con tutti coloro che parlano questa lingua, cioè quasi dappertutto nel mondo. Quindi dovetti correre a conoscere nel più breve tempo possibile l’inglese soprattutto per conoscere i testi delle canzoni e i vari artisti e gruppi. La musica reggae è una musica particolare, profonda, con contenuti vitali per il pianeta, quali l’amore, il rispetto, la pace, l’uguaglianza, contro la guerra, la violenza, il razzismo, il soffocante capitalismo, l’omofobia e il sessismo, ultime materie che usciranno solo a partire dal 1992. Purtroppo però il reggae venne considerato una “musica per drogati” e ai fini discografici non fu gratificante quest’appellativo, portando ad ascoltare il reggae sempre di nascosto e in particolari circostanze. Questa musica diede sempre fastidio ai politici giamaicani, come a quelli britannici, e nonostante ciò definire il reggae una musica “scomoda” è allucinante e a mio parere, mai come in questo preciso periodo della nostra esistenza, andrebbe amplificato il buon nome della musica roots reggae, che dà ninfa vitale e speranza a tutti coloro che l’ascoltano e la diffondono attraverso radio, sound system,ecc.
E proprio per imparare l’inglese che con la scuola farai un viaggio in l’Inghilterra: che cosa ricordi maggiormente di quel periodo? Qual è stato il luogo che più ti ha affascinato?
Non si può scordare il primo viaggio a Londra, anche perchè rimasi “folgorato” dalla quantità illimitata di materiale musicale su cui potevo mettere le mani: il problema però, veniva ingigantito dalla moneta locale, cioè il pound o sterlina, che per noi italiani diveniva davvero svantaggiosa quando si passava a cambiare le lire, ritrovandoci con davvero pochi soldi per poterci permettere di comprare quei dischi tanto sognati, attesi, immaginati sin dalla fine degli anni ’70, quando mi compravo le riviste inglesi in edicola. Il viaggio risale al 1984 e nell’omonimo capitolo di Febbre a 33 giri ripercorro quel ricordo vivo, fresco ed attuale, che rimane senza alcun dubbio la mia “quasi” assunzione presso il negozio di Daddy Kool, quando mi misi a mettere in ordine tutto il magazzino all’insaputa del proprietario Keith Stone, dato che gli dissi che ero interessato a comprare un bel po’ di dischi e così mi fece stare nel retro del negozio dove io mi persi tra i suoi dischi che misi in ordine. Purtroppo in quel periodo andavo ancora a scuola e rifiutai la proposta di lavorare per lui, un rimpianto eterno dovuto anche all’impossibilità di accettare la sua ghiottissima offerta. Invece il luogo dove conobbi uno dei più importanti artisti dell’intera storia della musica reggae fu quando andai al negozio Alltone Records di Alton Ellis, dove ebbi la fortuna di conoscerlo e parlarci fu durissima, a causa del mio non-inglese ma nello stesso tempo feci parlare lui che dialogando con il figlio……leggerete tutto sul libro.
Il Regno Unito sarà un paese che visiterai spesso, anche per motivi di lavoro, legati alla Good Stuff promotion: quali sono stati i migliori concerti che avete realizzato?
Si a Londra ci sono stato tante volte e ci ho anche vissuto per tre mesi nel 1992 e i concerti sono totalmente differenti dai nostri organizzati in patria. Devo dire che nel corso della mia collaborazione con i “patron” della Good Stuff, Marco Provvedi aka Mukandi Lal e Fernando Pallone, ho potuto conoscere dal vivo tutti quegli artisti che fecero la mia e non solo, colonna sonora vitale di amante e appassionato di questa splendida musica. A metà degli anni ’80 fu l’arrivo dei primi toaster giamaicani come Bikey Dread, Jah Woosh e Militant Barry, per poi giungere a Roma nomi d’altissimo calibro e professionalità come Gregory Isaacs, Barrington Levy, Third World e i musicisti storici e fondamentali come Sly Dunbar e Robbie Shakespeare, Jackie Mittoo, Dean Fraser e tanti altri. L’elenco dei concerti è davvero lunghissima, ma potete ugualmente consultarla sulla mia biogafia del sito www.rootsandculture.it per capire quali nomi abbiamo avuto a contatto ravvicinato, potendo così realizzare un grande sogno nel cassetto. A questa domanda non posso rispondere solo con uno, per cui posso dire che le migliori performance che abbiamo organizzato e che hanno avuto un enorme esito positivo, sia per l’enorme qualità che per la quantità di persone accorte furono quelli degli Aswad, Culture e Sugar Minott, tutti svoltosi al Teatro Tenda a Strisce.
La Giamaica sarà l’altra tappa fondamentale, che arriverà negli anni ‘90: immagino la quantità di dischi che avrai imbarcato sull’aereo per il ritorno! Scherzi a parte, nei viaggi in cui l’hai visitata, qual è stato il luogo che hai visitato più volte e le persone che hai conosciuto?
Il 1992, 1993 e il 1994 saranno i tre anni dei miei viaggi in Giamaica; il discorso dei dischi lo dovetti affrontare all’aereoporto di Miami dove mi fecero storie per la quantità di dischi che mi portai a casa: loro insistettero che erano nuovi, mentre io affermai tutto il contrario, che erano tutti usati e infatti la sera prima di partire feci impolverare tutti gli album appositamente, così da non incorrere a tasse d’importazione o cose del genere. Ma litigai pesantemente con una signora molto insistente e alla fine feci chiamare un addetto per spiegargli che la collega stava esagerando. I luoghi dove sono stato più spesso furono sempre a Kingston e Montego Bay, dove risiedevano il maggior numero di studi, negozi e distributori. Bisogna dire una cosa di fondamentale importanza, che la chiave di tutte le mie conoscenze e viaggi in queste città furono per merito del trombonista Vincent Gordon aka Don Drummond Jr, o più semplicemente Vin Gordon, il quale ebbi il piacere e l’onore di conoscere presso lo stabilimento e concert avenue “De Bus” a Negril (la Rimini della Giamaica). Qualche luogo e qualche artista storico vorrei ricordarveli ugualmente: al Rockers International incontrai Augustus Pablo, allo Studio One King Stitt mi invitò a casa sua, che era affianco allo studio, chiuso per lavori che finirono negli ultimi mesi del 1994; il Mixing Lab dove incontrai Sly & Robbie che facevano la spesa al mercato; Aquarius Records & Studio dove conobbi Clive Chin… la lista non finisce qui e vi rimando ai tre capitoli rispettivi tutti legati alla mia esperienza giamaicana.
Il Tour de Force si concluderà durante gli anni 2000 con l’Etiopia: che impatto ha avuto su di te visitare il palazzo di Haile Selassie?
Il viaggio in Etiopia era già nell’aria sin dal 2004, ma con la perdita di mio padre avvenuta a novembre del 2003, in quel periodo ebbi un grande problema.
Oltre allo straziante dolore per la perdita di un genitore anche abbastanza giovane, dovevo concludere di scrivere il precedente libro “100 Dischi Ideali Per Capire Il Reggae”, il quale doveva essere terminato entro e non oltre l’aprile del 2004, per stamparlo nel luglio. Quindi il viaggio lo dovetti rimandare ad aprile del 2008. Questo fu davvero emozionante perchè era la prima volta in Etiopia ad Addis Abeba, un luogo sacro, un luogo da visitare assolutamente e riflettere anche su tanti argomenti che purtroppo non se ne discutono più da tantissimi anni. Il fatto curioso di questo viaggio fu soprattutto conoscere e vedere dove fosse l’ambasciata italiana, e la sorpresa fu enorme quando vidi in quale contesto dove venne collocata, cioè nella residenza ufficiale di Hailè Selassiè, immersa nei giardini e parchi grandissimi, il maneggio con i cavalli, il patio fiorito dove il Negus si sedeva, e i gradini dove ci siamo seduti io e la mia amica, che era anche dove si sedevano i leoni del Re proprio all’ingresso che porta al suo ufficio. L’emozione di visitare i luoghi dove visse Haile Selassie non fu di altissimo livello, sono sincero, ma sicuramente importante nella cultura dei Rasta di tutto il mondo.
Nei vari incontri che hai, il libro prende una piega romanzesca grazie alle diverse interviste con importanti esponenti della musica in levare: dall’incontro con lo scherzoso Dennis Brown a quello con lo scontroso Linval Thompson, il rapporto più emozionante che emerge però, è quello con Alton Ellis. Che effetto ti ha fatto parlarci ed incontrarlo più volte, tra l’altro anche nel suo negozio?
Come detto prima, incontrare Alton Ellis fu davvero elettrizzante perchè fu il primo artista che incontrai. La lingua inglese era un problema per me, perchè la capivo a tratti; quindi quando incontrai Alton Ellis ebbi la fortuna di rivederlo più volte e la lingua inglese non fu più un problema, lo incontrai nel 1996 durante lo show di Pat Kelly e Dennis Alcapone a Londra, nel 1998 a Roma, nel 2001 al Rototom Sunsplash ad Osoppo e il 14-15 gennaio 2005 a Pescara e Roma per il mio 40° compleanno. Con lui trascorsi dei bellissimi momenti, che rimarranno per sempre impressi nella mia memoria: mi raccontò della sua infanzia, dei suoi inizi come cantante e il suo coinvolgimento tra i due produttori contendenti più importanti durante gli anni ’60, Duke Reid e Coxsone Dodd.
La ciliegina sulla torta però, sono le schede artistiche di ogni cantante ad intervallare le memorie di un anno con l’altro. So che la scelta potrebbe essere ardua, ma c’è un disco che consideri il migliore, non solo per la qualità ma anche per la serie di ricordi legati ad esso?
Si, certo, chiaramente ce ne sono più di uno, ma sceglierei sicuramente “Lots Of Love And I” di Bob Andy e prodotto dall’unica produttrice dell’intera storia della musica reggae, Mrs. Sonia Pottinger e la sua magica etichetta “High Note” per il mercato discografico giamaicano o “Sky Note” per quello britannico.
Infine, un’ultima domanda: se dovessi tirare una sommatoria dei concerti a cui hai assistito, qual è quello che più ti è piaciuto e il peggiore a cui hai assistito?
Oltre ai già citati show di Dennis e Peter, quello più entusiasmante fu quello dei Culture con il suo grande leader Joseph Hill a Roma, mentre quello peggiore fu Jimmy Cliff al laghetto dell’Eur nel 1991.
Grazie per il tuo tempo e per il tuo contributo alla scena in levare. Big Up!
Grazie a te e a tutto lo staff di eventireggae.it per l’interessamento alla mia opera e alla mia storia di appassionato, cultore e diffusore della nostra musica che amiamo profondamente.
photo credit: Fabiana Saliceto